TONY LAUDADIO

Un viaggio tra parole, musica e immagini che raccontano l’anima di Tony Laudadio un artista senza confini

A cura di Maria Vittoria Corasaniti

Tony Laudadio è un artista poliedrico: attore, regista, scrittore e musicista, con una carriera che spazia dal teatro al cinema, fino alla narrativa e alla musica. La sua versatilità lo rende una delle voci più intense e complete del teatro e del cinema italiano. Con la capacità di passare dalla scena teatrale al grande schermo mantenendo sempre autenticità e profondità, conquista pubblico e critica. Lo abbiamo incontrato per ripercorrere il suo percorso artistico, le sfide affrontate e le avventure che hanno segnato la sua carriera…

Formatosi alla Bottega di Vittorio Gassman, ha costruito una carriera che lo ha visto protagonista sul palcoscenico con Teatri Uniti e al fianco di Tony Servillo, distinguendosi per versatilità e intensità interpretativa. Al cinema ha lavorato con registi come Nanni Moretti (Habemus Papam, Mia madre), Edoardo De Angelis (Indivisibili), David Grieco (La macchinazione) e in produzioni televisive come Il Commissario Montalbano. Parallelamente ha coltivato la scrittura, pubblicando romanzi con Bompiani, e la musica, fondando il gruppo Calebasse con cui ha inciso due album. Laudadio incarna l’idea di artista completo, capace di muoversi con naturalezza tra teatro, cinema, narrativa e musica, mantenendo sempre autenticità e profondità.

In che modo ti sei preparato per interpretare Lello? Hai svolto ricerche specifiche vista la particolarità del personaggio?

R: “Ogni personaggio che interpreto nasce sempre da una base di ricerca e approfondimento. La tecnica, in fondo, è simile: si parte dalla sceneggiatura, da ciò che gli autori hanno immaginato, e da lì si costruisce un’idea di ciò che serve alla storia attraverso quel ruolo. Con Lello, fin dalla prima puntata, era chiaro che portasse con sé un piccolo segreto, qualcosa di sotterraneo che avrebbe accompagnato il personaggio fino alla fine. Questo mi ha costretto a lavorare su un uomo che, per sei episodi, doveva fingere normalità, per poi rivelare solo alla fine la trama nascosta che lo riguardava. Accanto a questo percorso interiore, c’è stata la preparazione del corpo. Gli attori sono pensiero, ma anche corpo, e con il regista abbiamo discusso molto su come rendere Lello credibile. Ci piaceva l’idea che fosse un godurioso, amante del cibo, del riposo, del piacere della vita. Da qui è nata la scelta di dargli una fisicità corposa, con quel pancione che in realtà non è mio ma finto, e che lo rendeva più bonaccione, rassicurante, quasi innocuo. Questo contrasto fisico serviva a mascherare la sua vera natura: la talpa all’interno del gruppo. In questo modo Lello ha vissuto un conflitto costante tra ciò che mostrava e ciò che nascondeva. Il corpo, l’immagine esteriore, diventava parte integrante della sua doppia verità. È stato un lavoro che ha unito mente e fisicità, due vettori che insieme hanno dato vita al personaggio”.

Lello ha un lato leggero e umano come il suo debole per i cibi calorici, quanto è stato importante inserire questi dettagli per rendere il personaggio credibile vicino al pubblico?

R: “Molti aspetti di Lello erano già scritti in sceneggiatura, ma altri sono nati sul set grazie al lavoro con Luca Miniero, un regista che sa accogliere le idee degli attori. Così sono venuti fuori battute e piccoli tormentoni sul cibo, che hanno reso il personaggio divertente e umano. Lello è tenero, un po’ pigro e poco coraggioso, ma proprio per questo il pubblico si affeziona: in mezzo al dramma, la sua unica preoccupazione resta cosa mangiare, e forse è proprio questa leggerezza che lo rende così comprensibile e vicino agli spettatori”.

È stato complicato dare vita a un personaggio come Lello, che alla fine sorprende con un colpo di scena perché non è ciò che sembra, mentre gli altri interpreti sanno fin dall’inizio di dover vestire i panni del cattivo?

R: “Lello è sicuramente più subdolo rispetto agli altri personaggi, anche se ciò che fa non è così grave né cattivo come le azioni degli altri. Conserva però un lato oscuro che lo rende affascinante. La sua storia non è stata raccontata direttamente: il personaggio è ispirato a una figura reale descritta nel libro di Don Antonio Loffredo, ma nella serie abbiamo scelto di inventare una sottotrama che non esisteva nel testo originale. A me diverte molto interpretare personaggi con conflitti interiori, con zone d’ombra, perché sono più tridimensionali, complessi e quindi più interessanti da recitare. Questo lato ambiguo di Lello mi ha colpito subito: mentre gli altri cattivi sono dichiarati fin dall’inizio, lui rimane sospeso, enigmatico, e proprio per questo cattura l’attenzione. Chi ha visto la serie scopre che il suo comportamento nasce da paure profonde: la paura di invecchiare, di restare solo, di essere messo da parte. Sono timori che molti adulti e anziani possono riconoscere, e che in parte lo giustificano. Alla fine, Lello si rivela una persona fragile, tenera, e forse proprio per questo il pubblico finisce per perdonarlo”.

Possiamo dire che Lello sia un personaggio reale e non di fantasia?

R: “Lello nasce da una testimonianza viva, dal racconto sincero di Don Antonio Loffredo, che non inventa nulla ma apre il cuore in prima persona. Nel suo libro c’è un personaggio che richiama Lello, ma con tratti diversi: un uomo segnato da un passato difficile, dalla dipendenza, e poi dalla rinascita. Noi lo abbiamo reinventato, alleggerendone le ombre e rendendolo forse più bonario, più vicino a un sorriso che consola. Dietro la finzione, però, c’è la verità di una persona reale, che ha davvero collaborato con Don Antonio nella Chiesa, diventando il factotum della sacrestia, un sostegno silenzioso e prezioso. Alcuni personaggi nascono da vite realmente vissute, altri sono frutto di invenzione, ma tutti portano con sé un seme di ispirazione. La narrazione li trasforma, li protegge, li sintetizza: perché le storie di quegli anni, che si sono intrecciate lungo un arco di dieci, quindici anni, non potevano essere raccontate senza un respiro narrativo che le rendesse universali. Così, tra realtà e invenzione, tra rispetto e necessità narrativa, i personaggi prendono vita, diventano simboli, e ci ricordano che dietro ogni racconto c’è sempre un’anima vera.”

In che modo hai sviluppato la relazione tra Lello e gli altri personaggi, in particolare i ragazzi della parrocchia e Don Giuseppe?

R: “Con i ragazzi si è creata una magia che somigliava alla vita vera: Lello, personaggio nato da una persona reale, aveva con loro un rapporto quasi paterno, a volte dolce e protettivo, altre volte severo e brusco, come chi rincorre e richiama all’ordine ma lo fa per amore. Sul set quella stessa dinamica si ripeteva: i ragazzi, con la loro energia e spontaneità, davano vita a un gioco di complicità fatto di rincorse, di piccoli scontri e di riconciliazioni, un intreccio di amore e ribellione che rendeva tutto vivo e autentico. Giampiero, che conosci già, ha mostrato un talento raro, capace di andare oltre la sua età e di incarnare il personaggio con profondità: con lui e con gli altri ci siamo spesso divertiti, trovando leggerezza anche nei momenti più intensi. Lello ha avuto un legame speciale con Asprinio e con Suor Celeste, interpretata da Bianca Nappi. Con Vincenzo Nemolato, che conosco da tanti anni, si è creata un’intesa particolare, soprattutto nei tempi comici: insieme sembravamo quasi una coppia comica, come Totò e Peppino, e ci siamo divertiti a giocare con quella dimensione, anche oltre i confini dei personaggi. Con Asprinio, invece, il rapporto era quasi da coppia di fatto: sempre lì, a litigare e a cercarsi, ad odiarsi e a consolarsi, in un equilibrio fragile ma bellissimo. È una dinamica che ci ha fatto sorridere e che ci piacerebbe poter sviluppare ancora, perché ha il sapore di qualcosa che non dovrebbe finire. Speriamo che ci sia spazio per altre stagioni, per continuare a raccontare questa danza di affetti e contrasti.”

Quanto è stato significativo per te interpretare un ruolo silenzioso, ma fondamentale, all’interno della comunità?

R: “È un personaggio che mi ha affascinato profondamente, una presenza silenziosa ma solida, una colonna che regge il peso delle fragilità e delle ambiguità senza mai venir meno alla sua costanza. Porta sulle spalle fardelli anche gravosi, eppure rimane lì, accanto a Don Giuseppe insieme ad Asprinio e Suor Celeste. Lello, in particolare, sembra vivere questa vicinanza con discrezione, senza voler interferire o imporsi: compie ciò che deve, con dedizione, senza aspettarsi riconoscenza o gratitudine. Ed è proprio questo che lo rende speciale: la sua capacità di esserci sempre, di partecipare senza clamore, di non tirarsi mai indietro. Persino nel momento del tradimento, se così lo si può definire, la sua prima reazione è il pentimento: abbraccia Don Giuseppe, gli bacia le mani, perché in fondo la sua volontà autentica è quella di restare, di sorreggere la comunità, il suo rione, il luogo in cui è cresciuto e che sente come parte di sé. Questo aspetto mi tocca particolarmente. Io vivo a Caserta, ma ogni giorno respiro la realtà partenopea. Ho scelto di non partire, di non trasferirmi a Roma come fanno molti attori: preferisco restare nel mio territorio, viverlo, contribuire a farlo crescere. In questo mi sento vicino a Lello: condividiamo la stessa radice, lo stesso desiderio di appartenenza.”

Qual è, secondo te, il messaggio principale della serie e quale ruolo ha la parrocchia nel percorso di riscatto dei ragazzi del quartiere?

R: “Penso che sia stata un’idea luminosa, una vera intuizione, quella di partire da un territorio. Il titolo stesso della serie lo rivela: non raccontiamo soltanto un personaggio o un protagonista, ma il Rione Sanità, con tutta la sua storia e la sua anima. È un gesto di servizio pubblico autentico e prezioso, che la RAI ha saputo cogliere: da lavori come questo possono nascere altri esempi, altre scintille in luoghi diversi, ed è proprio questo il valore di un’opera che si pone al servizio della comunità. Il legame dei ragazzi con il loro quartiere è un fatto reale, che conosco bene. Molti di loro, i “ragazzi storici” del Rione Sanità, iniziarono facendo teatro in una piccola chiesetta sconsacrata: li ho conosciuti di persona, e sono stati fondamentali. È innegabile che Don Antonio Loffredo, con il suo modo di vivere e guidare la parrocchia, abbia dato un impulso decisivo alla crescita del quartiere. Un luogo che per molti era considerato impenetrabile, segnato da affari oscuri e ritenuto irrecuperabile, ha trovato invece una luce. Don Antonio ha dimostrato che nessun territorio è davvero impossibile: con il lavoro, con la fiducia, con la cultura si può aprire una breccia ovunque. Per questo considero straordinario ciò che ha fatto, ed è altrettanto bello poterlo raccontare attraverso un’opera artistica che restituisce dignità e speranza a un quartiere e alla sua comunità.”

Quali insegnamenti o emozioni conserverai dall’esperienza vissuta sul set di Noi del Rione Sanità?

R: “Sono davvero tante le emozioni che porto con me, difficile farne un elenco: ricche, diverse, stratificate. Abbiamo girato la serie nell’arco di quattro, forse cinque mesi, e in quel tempo abbiamo vissuto il Rione quotidianamente, soprattutto noi protagonisti. È stato un percorso intenso, fatto di episodi belli e faticosi, lunghi e duri, ma sempre colmi di emozioni e di rapporti che si costruivano giorno dopo giorno. Quello che mi resta è un’esperienza di vita: la condivisione con i miei colleghi è stata preziosa, piacevolissima, indimenticabile. Anche se lo facciamo per mestiere, anche se siamo professionisti, il nostro è pur sempre un lavoro sulle emozioni. È il paradosso del nostro lavoro, ed è ciò che ci arricchisce. Da esperienze come questa non ricevi solo un arricchimento professionale, ma soprattutto umano. Ti resta dentro e ti accompagna nei lavori successivi, nel modo in cui ti rapporti agli altri, alla troupe, al regista, giorno dopo giorno, per mesi interi. Una serie così lunga diventa inevitabilmente un frammento di vita, un fatto di vita molto forte, che ti segna e ti rimane.”

Quale messaggio, secondo te, vuole trasmettere la fiction attraverso il tuo personaggio?

R: “La fiction porta un messaggio forte: nessun luogo è davvero irrecuperabile, ogni realtà può cambiare e trasformarsi. Lello, con la sua fragilità e tenerezza, dimostra che anche con paure e timori si può restare presenti, partecipare e contribuire. È un invito a non lasciarsi paralizzare dalle ansie, ma a uscire dalla propria comfort zone e a mettersi in gioco.”

Tony come nasce la tua passione per la recitazione e per la musica?

R: “Sono nato come musicista, iniziando con il flauto traverso e poi il sassofono da adolescente. La musica è stata il mio primo linguaggio, ma presto, insieme a un gruppo di amici con cui condividevo i sogni e le inquietudini dell’adolescenza, abbiamo scoperto il teatro. Ci divertiva metterci in scena, giocare con le emozioni, e tutto questo accadeva nell’oratorio dei Salesiani di Caserta. Quasi per gioco, insieme a un amico, decisi di fare domanda alla Bottega di Gassman, una prestigiosa scuola di teatro a Firenze. Era un corso esclusivo, due anni intensi, e fui scelto tra venti ragazzi su quattrocento candidati. Per me fu un segnale forte: avevo trovato la mia strada. Da quel momento il teatro mi ha rapito, e poi il cinema mi ha assorbito completamente. Credo che la scintilla iniziale sia stata proprio il gioco: stare sulla scena mi divertiva, mi fa stare bene ancora oggi. È lì che porto in primo piano il mio lato bambino, fanciullesco, quello che non ho mai voluto perdere. Così il teatro ha preso il sopravvento sulla musica, che è rimasta sullo sfondo come passione quotidiana: continuo a suonare, a esercitarmi, a suonare con le mie band, ma non è più il mio mestiere. Il teatro e il cinema, invece, sono diventati la mia vita.”

Ti piacerebbe dedicarti maggiormente alla musica, magari realizzando un progetto musicale o una tournée?

R: “Sì, devo dirti che mi piacerebbe molto: sarebbe un sogno immaginare una tournée interamente musicale, diversa da quelle teatrali. In parte, questo già accade, perché nei miei spettacoli porto spesso la musica con me: suono, canto, lascio che gli strumenti e le melodie filtrino attraverso il lavoro teatrale. Non sono veri e propri concerti, ma la musica è sempre presente, come linfa che attraversa la scena. Sono una persona eclettica: oltre alla musica, al teatro e al cinema, scrivo anche libri. Ho pubblicato sei romanzi e mi divido tra tante passioni, il che rende difficile trovare il tempo per tutto. Ma certo, l’idea di una tournée musicale vera e propria mi affascina moltissimo. Sarebbe un’esperienza straordinaria, un modo diverso di condividere emozioni e di restituire al pubblico quella parte di me che nasce dalla musica”

Come nascono i tuoi libri? I personaggi hanno radici autobiografiche?

R: “No, i miei romanzi nascono da una spinta molto simile a quella che mi ha portato verso il teatro. Fin da ragazzo ho amato leggere, divoravo libri e scrivevo testi, soprattutto drammaturgie che poi mettevo in scena. A un certo punto la mia agente letteraria ha intuito che quei testi teatrali potevano rivelare una capacità narrativa più ampia, e così ho iniziato a scrivere romanzi e racconti. È stato un percorso naturale: i miei lavori sono piaciuti subito e sono stato pubblicato prima da Bompiani, poi da altre case editrici. I personaggi che creo sono invenzioni letterarie, ma inevitabilmente nascono dalla mia storia e dalla mia vita. Nel mio ultimo romanzo, uscito l’anno scorso, ho ambientato la vicenda a Caserta, raccontando figure che appartengono alla mia realtà e al mio territorio. Non sono autobiografici in senso stretto, ma riflettono ciò che conosco. In fondo, uno scrittore è sempre autobiografico e al tempo stesso non lo è mai: tutto ciò che scrive nasce dalla sua esperienza, ma passa attraverso un filtro che trasforma e trasfigura la realtà. È proprio questa trasfigurazione che si legge nei miei romanzi.”

Quali sono le influenze che hanno segnato maggiormente il tuo percorso musicale?

R: “La mia formazione musicale nasce soprattutto dal jazz, una passione che coltivo fin da giovanissimo. Ancora oggi, nel salone di casa, ho appeso le copertine dei miei vinili preferiti: da Sonny Rollins al Modern Jazz Quartet, fino a Charlie Mingus. È quel mondo del jazz, dagli anni ’50 agli anni ’80, che ha plasmato il mio gusto e il mio modo di ascoltare. Accanto al jazz, amo profondamente la musica classica e i cantautori, in particolare quelli italiani. Pino Daniele è per me un punto di riferimento, quasi un nume tutelare. In generale, mi piace la musica di qualità, quella che nasce da un’ispirazione autentica e alta, non semplicemente per compiacere il pubblico o vendere dischi. Potrei dire che ascolto un po’ di tutto, ma le radici della mia formazione restano nel jazz e nella musica classica: due universi che continuano ad accompagnarmi e a nutrire la mia sensibilità artistica.”

Ti capita di utilizzare la musica come mezzo per dare vita a un personaggio o per immergerti in una scena?

R: “È davvero una bella domanda. Io credo di sì: la musica è ormai connaturata al mio modo di affrontare i personaggi. Non penso soltanto alle parole, ma ai tempi, ai ritmi, al modo in cui un personaggio parla o persino si muove. Tutto questo ha a che fare con la musica. È un approccio da musicista: spesso guardo la battuta non per il suo significato, ma per il suo suono, per come vibra, per come riverbera dentro un tempo comico o drammatico. In fondo, la musica è sempre presente nella nostra vita, anche quando non ce ne accorgiamo. È nelle voci di chi ci parla, nelle melodie che ci sorprendono all’improvviso, nelle note che ci raggiungono senza preavviso. Viviamo immersi in un mondo sonoro, e riconoscerlo significa accogliere una fonte inesauribile di ispirazione.”

Essere un’artista del Sud Italia significa spesso avere un legame profondo con il territorio. In che modo Napoli, o la tua terra d’origine — Caserta — influenza il tuo processo creativo?

R: “È una parte importante del mio mondo, senza dubbio. Come ti dicevo, ho studiato a Firenze e per molti anni ho frequentato un teatro di impostazione italiana, con una lingua corretta, talvolta persino formale e rigidamente strutturata. Gran parte della mia carriera è stata segnata da testi e drammaturgie legati a questa tradizione. Eppure il luogo da cui provengo ,Caserta, che vive nell’orbita del sole napoletano, rimane sempre dentro di me come un modo di pensare, un ritmo che influenza il corpo e la voce. Napoli porta con sé una musica antica, che non è solo melodia ma lingua, gesto, cultura teatrale millenaria. Anche quando parlo in italiano, spesso penso in napoletano: è un sottofondo che non smette mai di vibrare. Il territorio ti costringe a confrontarti con una realtà complessa, fatta di disservizi e problemi quotidiani ancora irrisolti. Ma proprio questo ti aiuta a restare con i piedi per terra, ti dona concretezza e ti ricorda di rimanere umano. È una ricchezza che si riflette nelle persone: riconosci chi viene da luoghi dove la strada è ancora lunga, dove la fatica e il lavoro sono parte della vita. Forse è vero che l’arte nasce dal dolore. Noi quel dolore lo viviamo costantemente, e proprio per questo diventa una forza, una linfa che alimenta la creazione.”

Quale personaggio immagini, nel tuo percorso artistico, come sfida o sogno da incarnare?

R: “Sono tanti i sogni che custodisco e sarei felice di interpretare tanti altri personaggi. Ho progetti che vorrei scrivere, desideri che mi portano verso Shakespeare e verso altri Beckett, oltre quelli che già ho affrontato: testi che incarnano l’essenza stessa del teatro. Mi piacerebbe anche tornare al cinema, collaborando con registi capaci di ispirare con la loro visione. Il mio primo film fu anche il primo di Paolo Sorrentino: un incontro speciale, che purtroppo non si è più ripetuto sul set, anche se siamo rimasti amici. Ritrovare lui, o altri maestri di questo calibro, con un ruolo intenso e alto, sarebbe per me un dono. C’è il sogno di continuare a intrecciare musica e teatro, di farli dialogare come due voci che si inseguono e si completano. Sono tante le strade che vorrei percorrere, e tutte nascono da un desiderio profondo di creare, di lasciarmi guidare dall’arte verso nuove forme di espressione.”

Progetti futuri?

R: “A gennaio andrà in onda una nuova serie a cui ho preso parte, dal titolo La preside. La protagonista è Luisa Ranieri e io interpreto un personaggio molto interessante, il capitano dei carabinieri. Non voglio svelare troppo, ma è davvero un bel ruolo. La serie racconta la storia vera di una dirigente scolastica che ha rivoluzionato un istituto alberghiero di Caivano, una realtà difficile della periferia napoletana. Abbiamo girato la scorsa primavera e credo che sarà una bella storia di riscatto, in onda su Rai Uno proprio a gennaio. Sul fronte teatrale, invece, sto per debuttare l’11 al Teatro Trianon di Napoli con un’opera di Scarpetta. Inoltre ci sono diverse proposte che sto valutando per l’inizio del prossimo anno. Nel frattempo ho anche terminato la stesura di un nuovo romanzo: stiamo decidendo quando pubblicarlo, perché ci sono ancora alcune cose in ballo.”

Se dovessi delineare Tony Laudadio, l’uomo dietro l’artista, quali aspetti metteresti in luce?

R: “È una domanda davvero complessa, potremmo parlarne per ore. Se penso a come definirmi come artista, direi che la curiosità è la mia guida: è ciò che orienta il mio percorso e mi spinge a esplorare tutte le potenzialità che l’essere artista racchiude. Non mi limito alla recitazione, al teatro o al cinema, ma cerco di aprirmi anche alla musica, alla scrittura e a qualsiasi ambito che possa stimolare interesse e creatività. In questo senso, curiosità ed esplorazione sono le caratteristiche che meglio mi rappresentano. Come uomo, invece, mi considero stabile e passionale, profondamente legato agli affetti e soprattutto ai miei figli. Per me il cuore viene prima della mente: è il cuore che detta il ritmo della mia vita. Autodefinirsi, però, resta sempre difficile; forse sono gli altri a poter dire chi sono davvero, con maggiore verità. Io, in fondo, vivo una serenità ormai consolidata, che mi accompagna e mi fa piacere. E con Lello condivido due semplici gioie quotidiane: il gusto del cibo e il piacere del riposo.”

Dopo tanti anni di carriera cosa ti spinge ancora a salire sul palco?

R: “È una domanda importante, alla quale bisognerebbe provare a rispondere ogni giorno. Con sincerità, direi che le motivazioni sono molteplici. Non si può negare l’aspetto professionale: lavorare è necessario per vivere, e il mestiere dell’attore, come ogni altro mestiere, richiede impegno e dedizione. Ma se fosse solo questo, se ci si limitasse a scegliere ruoli comodi, remunerativi e privi di stimoli, alla lunga subentrerebbe la noia. La vera spinta nasce dall’incontro con personaggi che ti provocano, che ti aprono mondi nuovi e ti permettono di immaginarti fuori da te stesso. È lì che scatta la magia: il teatro e il cinema ti regalano la possibilità di essere qualcun altro, anche solo per un’ora, un giorno o, a volte, per mesi interi. È come vivere dentro un carnevale prolungato, dove ogni maschera diventa un’occasione di scoperta e di libertà. Questa è la leva principale, ma non l’unica. Ci sono tanti ingredienti che si intrecciano: la passione, la curiosità, la professionalità. Fare l’attore non è un privilegio alieno, non è un mestiere “strano”: è un lavoro vero, costruito con anni di fatica e di esperienza, proprio come quello di un avvocato o di qualsiasi altro professionista. Certo, ci sono motivazioni interiori che alimentano la scelta, ma alla base resta sempre la dimensione concreta e quotidiana di un mestiere che ho imparato ad amare e a rispettare.”

Puoi scoprire di più su Tony Laudadio visitando il suo sito ufficiale

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