In un’intervista esclusiva, Marianna Mercurio racconta la sua trasformazione da madre spietata nel film di Sorrentino a figura premurosa in Noi del Rione Sanità.
A cura di Maria Vittoria Corasaniti
Marianna Mercurio è un’attrice italiana nata a Napoli, conosciuta per il suo talento e per la capacità di interpretare ruoli intensi e autentici sia a teatro che sullo schermo. Cresciuta in una famiglia numerosa, Marianna sviluppa fin da giovane un profondo amore per lo studio, la musica e la recitazione, che diventeranno le basi della sua carriera artistica. Ha iniziato il suo percorso nel teatro musicale, partecipando a produzioni di grande successo come C’era una volta Scugnizzi, distinguendosi per la sua energia e la capacità di cantare e recitare con la stessa intensità. La sua formazione teatrale le ha permesso di affrontare ruoli complessi e sfidanti, collaborando con maestri del calibro di Luigi De Filippo, Armando Pugliese e Sergio Rubini. La carriera cinematografica e televisiva di Marianna è caratterizzata da personaggi forti e autentici, spesso donne complesse che affrontano sfide interiori e sociali. Tra i suoi lavori più recenti, figurano fiction e film di successo prodotti da importanti case di produzione italiane, dove ha saputo portare la sua esperienza teatrale e la profondità emotiva dei suoi ruoli. Oltre alla carriera artistica, Marianna è profondamente legata alla famiglia, ai valori che l’hanno cresciuta e alla quotidianità che le dà ispirazione e forza. La sua vita personale e professionale si intrecciano, facendo di lei un’artista completa, capace di trasmettere emozioni genuine e di lasciare un segno indelebile sul pubblico.
Cosa ti ha colpito di più della sceneggiatura quando l’hai letta per la prima volta?
R: “Mi ha colpito innanzitutto il fatto che sia una storia vera, perché Padre Antonio esiste davvero. Sono in tanti a testimoniare tutto ciò che ha fatto per le persone vivevano nel Rione Sanità, e per chiunque lo incontrasse. Aveva questa capacità di coinvolgere la gente, di portarla in Chiesa quasi senza che se ne accorgessero, con una naturalezza incredibile. Sai, spesso vai a Messa, ma trovare un prete davvero umano, che scende tra la gente e diventa uno di noi, non capita tutti i giorni. Per quanto riguarda il mio personaggio, mi ha colpito molto Antonietta perché è una figura estremamente umana. È una mamma che, come tante altre, si preoccupa del proprio figlio adolescente e cerca di proteggerlo da quelle situazioni difficili che purtroppo ancora oggi si vedono e si sentono. Quando vivi in certi contesti, come nel caso della nostra storia, la realtà è diversa e certe dinamiche emergono ancora di più. Nonostante il grande lavoro di Padre Antonio, tante mamme continuano a non dormire la notte. Io non sono madre, ma riesco a immedesimarmi: ho 28 nipoti, quindi so quanto sia complicato crescere dei figli, soprattutto durante l’adolescenza. Quando sono piccoli puoi rimproverarli e in un modo o nell’altro ti ascoltano, ma da adolescenti diventa tutto più difficile. C’è una scena che rappresenta bene questo: mio figlio scappa sempre dalla bottega e mio marito gli dice “un’ora, non tre!” — perché lui dice “torno fra un’ora”, ma poi sparisce per molto di più, e tocca andare a cercarlo. È una situazione in cui tante famiglie possono riconoscersi. L’arrivo di questo prete rappresenta una sorta di speranza per queste mamme, per questi genitori che desiderano un futuro migliore per i propri figli. Pensano che magari lui possa davvero coinvolgerli, aiutarli a ritrovare una direzione, e in effetti è andata proprio così, sia nella realtà che poi nella serie”.
Quali aspetti di Antonietta ti hanno emozionato o ti hanno fatto sentire più vicina a lei?
R: “Mi ha colpito che Antonietta è una madre nel senso più autentico della parola: semplice, generosa, totalmente dedita alla famiglia e al lavoro. È un’artigiana che fa i presepi, e girare nella bottega è stato meraviglioso, perché quel luogo aveva un’anima vera, quasi magica, per noi napoletani il presepe è un simbolo profondo. Antonietta mi ha ricordato le donne di una volta, come mia madre: sempre concentrate sulla casa, sui figli, pronte a sacrificarsi senza pensare a sé. Ma dietro la sua dolcezza c’è anche una grande forza. Quando la vita la mette alla prova, tira fuori il carattere e combatte per proteggere il figlio. È proprio questo che amo di lei: la sua umanità, la sua forza silenziosa e il suo cuore autentico. Il mio personaggio ha tante sfumature, nella seconda parte, ad esempio, mi vedrete in momenti molto intensi, anche drammatici. Questo mi piace, perché per un’attrice è bello potersi calare in emozioni diverse, esplorare stati d’animo profondi e contrastanti”.
La scena in cui proponi a tuo marito di bere il caffè è diventata virale sui social. Come hai reagito a questo successo e cosa ne pensi del fatto che sia diventata un vero e proprio tormentone?
R: “Miniero volle proprio inserire quella scena in cui dico a mio marito: “Ti vien’ a pijà nu cafè?”, siamo solo noi due. Sta diventando virale su TikTok! Me ne sono resa conto poiché l’altro giorno sono andata dal parrucchiere, e mi hanno detto: “Ma ti rendi conto che sei dappertutto?”. Io in realtà non sono molto brava con TikTok, è mia nipote che segue e gestisce le pagine. È stata lei a dirmi: “Zia, guarda quanti video hanno fatto con quella scena!”. Ho visto alcune donne interpretarla, alcune anche più brave di me! ‘Sto fatto dello zucchero… mio marito ovunque va, lo prendono in giro! Eh Francè, attento ai cali di zucchero! (ride) Devo dire che fu Miniero ad avere l’intuizione: la scena era diversa, ma lui mi disse di dirla così. È stata una scelta strategica: semplice, un po’ piccante ma con eleganza, velata… e alla fine mi sta regalando tanti sorrisi, perché è bello vedere come la gente si diverta con così poco”.
Il tuo personaggio è ispirato a qualcuno di reale oppure è completamente di fantasia?
R: “Guarda, non lo so con certezza. Posso dire che tutta la fiction è ispirata alla storia di padre Antonio, ma ovviamente c’è una parte romanzata. Tutti e sei gli episodi raccontano la sua opera, però alcuni dettagli sono stati adattati per esigenze narrative. Quindi credo che anche il mio personaggio prenda spunto da una storia reale, pur non essendo una riproduzione fedele. Le tematiche restano quelle, solo raccontate in modo più narrativo”.
Qual è stata la scena più intenso o difficile da girare?
R: In questa fiction non ci sono state grandi difficoltà, ma una scena in particolare mi ha richiesto molta concentrazione: quella con mio figlio, in cui devo piangere. Per entrare nello stato d’animo giusto mi sono isolata con le cuffie, cercando ricordi dolorosi. Sul set non è facile mantenere la concentrazione mentre intorno si muove tutto, ma lì ho dovuto scavare davvero dentro di me. È stata una scena intensa, quella di una donna ferita e provata, e Luca Miniero mi fece molti complimenti: lì ho sentito di aver dato qualcosa di vero. Forse è per questo che, avendo vissuto tanti dolori personali, riesco a trasformarli in emozione scenica. Certo, fa male scavare dentro di sé, ma è anche una forma di liberazione. A teatro ho interpretato un monologo al Bellini con la regia di Luciano Melchionna, in cui dovevo piangere nove volte a sera. Era uno spettacolo molto intenso, “Dignità autonoma di prostituzione”, e dopo quella esperienza ho sentito il bisogno di leggerezza, di fare qualcosa di comico, per respirare un po’. Anni dopo lessi l’intervista di una grande attrice francese che diceva la stessa cosa: dopo tanti ruoli drammatici, aveva bisogno di passare a qualcosa di brillante. Mi sono riconosciuta in quelle parole e mi hanno confortata. È bello sapere che questo desiderio di cambiare, di trovare equilibrio tra dolore e ironia, è qualcosa che accomuna molti attori.
La fiction affronta temi sociali importanti: secondo te qual è il messaggio più forte che trasmette?
R: Per me, il messaggio più forte di Noi del Rione Sanità è che il bene, quando lo lasciamo entrare nella nostra vita, ha il potere di sconfiggere il male. Anche nei luoghi più difficili, dove il dolore e le difficoltà sembrano dominare, c’è sempre una luce di speranza. Padre Giuseppe, in particolare, è per me un simbolo di quella speranza. La sua presenza non giudica, non impone, ma accoglie, ascolta e guida con gentilezza e umanità. Spesso ci si sente intimoriti dall’abito talare, dalle regole della Chiesa, ma lui ci ricorda che la fede vera nasce dal cuore e dalla capacità di tendere la mano agli altri, anche quando tutto sembra perduto. Ogni personaggio, nonostante le difficoltà e gli errori, ha la forza di cambiare, di scegliere la strada giusta, anche se questo richiede coraggio e sacrificio. È un messaggio profondo, di speranza e di fiducia nell’umanità, che ci ricorda che il bene può trionfare, che anche nel dolore e nell’ombra può nascere la luce della rinascita. Da ragazza ho vissuto esperienze contrastanti con la Chiesa: a volte freddezza, altre volte un calore che ti resta dentro. Ricordo quando entrai nella gioventù francescana, la Gifra: lì trovai persone che mi ascoltavano, che mi accoglievano e mi facevano sentire parte di qualcosa di vero. Cantavamo insieme, ci prendevamo cura del convento, condividendo gioie e piccoli sacrifici. Quell’esperienza mi ha formato profondamente. Mi ha insegnato che il bene autentico crea legami indissolubili, lascia tracce indelebili e può davvero orientare il percorso di una vita.
Hai trovato delle somiglianze tra te e il tuo personaggio?
R: Sì, qualche affinità c’è con il mio personaggio. Anche a me piace cucinare per gli altri, anche se non sempre cucino da chef (ride). Mi piace l’idea di essere accogliente, di creare calore intorno a me, un po’ come fa il mio personaggio. Io non sono madre, quindi quella parte l’ho immaginata, cercando di capire come si comporterebbe una madre in certe situazioni. Però nei rapporti familiari, nel legame di coppia, mi ci ritrovo molto. Mio marito fa l’artista, e nel nostro piccolo nucleo familiare c’è tanto scambio, tanta cura reciproca. Mi piace prendermi cura delle persone che amo, perché credo che ogni gesto di attenzione sia una forma di amore. Antonietta mi ispira tantissimo. Mi colpisce questa sua forza silenziosa, questa mamma così dedita alla famiglia, che non esita a scendere in campo per proteggere i suoi cari. Anche quando agisce di nascosto, come quando va da Padre Giuseppe per chiedere aiuto per il figlio, lo fa per amore, per il bene della sua famiglia. In questo mi rivedo molto, cerco di proteggere, sostenere chi amo, lo faccio, con tutto il cuore, senza rumore, perché spesso il gesto più bello è quello che resta silenzioso ma sincero. Credo che si possa essere “madri” anche senza avere figli. Io, ad esempio, con i miei nipoti sento un affetto profondo, protettivo.
Dopo questa esperienza, quali sono i tuoi prossimi progetti artistici?
R: In questo periodo sto girando un nuovo film diretto da Luca Miniero, prodotto da Titanus Production e Pepito Produzioni, in collaborazione con Rai Cinema. Racconta la storia di Gigi D’Alessio, è ambientato negli anni ’80 e uscirà il prossimo anno. Io interpreto Ciretta, la sorella della mamma, ruolo affidato ad una straordinaria attrice, Cristiana Dell’Anna. Condividere il set con lei è davvero una grande soddisfazione, un’esperienza ricca sia dal punto di vista umano che artistico. Parallelamente, continuo a lavorare con mio marito nei recital e negli spettacoli musicali, tra canzoni napoletane, pièce teatrali e repertorio meroliano. Con Francesco c’è una bellissima intesa artistica: mi dà sempre grande spazio creativo e insieme stiamo costruendo nuovi progetti che uniscono teatro, musica e passione. È un percorso che sento molto mio, perché mette insieme tutto ciò che amo: l’arte, la condivisione e il cuore.
Quali sono i ruoli che sogni di interpretare in futuro?
R: Il mio sogno è lavorare con grandi registi come Quentin Tarantino, Giuseppe Tornatore o Martin Scorsese. So che sono nomi immensi, ma continuo a credere nei sogni. Sono una persona ottimista, con tanta speranza nel cuore. E poi, se la vita mi ha già regalato l’emozione di lavorare con Paolo Sorrentino, perché non pensare che la magia possa ripetersi. Mi innamoro dei personaggi intensi, di quelle donne che vivono fino in fondo, che cadono, soffrono e poi si rialzano più forti di prima. Donne che non lasciano solo un ricordo, ma una traccia nell’anima. Ad esempio interpretare Zuzù, nel film Parthenope, una mamma spietata, è stata un’esperienza incredibile, davvero forte. Sogno di rivivere emozioni così autentiche e profonde in ogni personaggio che interpreterò in futuro. Spesso interpreto donne autentiche, veraci, sia a teatro che al cinema, e questo mi dà grande soddisfazione. Ho conosciuto una sceneggiatrice con cui potrei collaborare in futuro, quindi, se non mi daranno il ruolo che desidero, pazienza: me lo scriverò da sola.
Come è nato il tuo interesse per la recitazione?
R: Il mio amore per la recitazione nasce dalla musica, dal teatro e dal desiderio di esprimermi. Ricordo ancora il corso con Gaetano Liguori e le sue parole: “Hai talento”. Poco dopo partecipai a un provino tra 1.200 ragazzi per C’era una volta Scugnizzi, fu l’inizio di un percorso meraviglioso, accanto a grandi registi e maestri. La vita, però, mi ha insegnato che il lavoro non può mai venire prima del cuore. Quando mio padre è morto e mia madre si è ammalata, ho scelto di fermarmi per loro, di restare accanto alla mia famiglia fino all’ultimo respiro. Eppure, anche nei momenti più difficili, le porte giuste si sono aperte: opportunità inaspettate, registi straordinari, ruoli che sembravano lontani. Credo che, quando ci si dona con sincerità e cuore, quando si vive davvero, il destino restituisca ciò che meriti. Per me, la recitazione è questo: un incontro con la vita, con le emozioni e con la forza di chi sa attendere e continuare a credere.
Come ti prepari per entrare in un personaggio?
R: Per entrare in un personaggio parto sempre dalla sua psicologia: penso a cosa prova, come reagirebbe, come vive la sua situazione e il suo tempo. Immergermi nella mente e nelle emozioni del personaggio mi permette di dare reazioni autentiche e vivere la scena con verità.
Qual è stata la sfida più grande che hai affrontato sul set o sul palco?
R: Sul palco ho affrontato sfide davvero intense, come nel ruolo di Nannina nello spettacolo di Viviani. Era una donna che aveva avuto una vita difficile, sfruttata e segnata dal dolore, e che dava consigli a una ragazza più giovane. Questo personaggio mi è rimasto molto nel cuore: ogni sera, mentre interpretavo le sue emozioni e cantavo, riuscivo a trasmettere tutto il suo dolore e la sua fragilità. Mi sono immedesimata in donne a cui la vita è andata storta, e lo facevo così profondamente che la ragazza che riceveva i miei consigli piangeva ogni sera, perché si sentiva completamente coinvolta. Umanamente uscivo svuotata da quelle serate, ma era una sensazione bellissima, perché sentivo di aver dato verità al personaggio e alle emozioni che raccontava. Nel cinema, la scena più forte è stata sicuramente quella con Paolo Sorrentino. Era una scena durissima, in cui il mio personaggio spingeva la figlia a spogliarsi, a vendersi. Non è facile interpretare una donna così cruda. Per riuscirci, ho cercato dentro di me una certa freddezza, e per farlo ho immaginato persone che in passato mi avevano fatto del male. In quel modo, il distacco è diventato reale, autentico. Dopo l’uscita del film, ho ricevuto tantissimi messaggi, forse un centinaio, da persone che non conoscevo, anche del settore, che mi hanno scritto per dirmi quanto li avesse colpiti quella scena, per la mia interpretazione fredda, distaccata, ma intensa. Mi ero molto affezionata alla ragazza che interpretava mia figlia, fuori dalla scena, la proteggevo davvero. Durante le pause, correvo a prenderle le coperte per coprirla, me la facevo passare prima che arrivassero i reparti. Mi dava fastidio vedere gli sguardi invadenti di alcuni presenti. È stato un dualismo difficile da sostenere: da un lato dovevo essere fredda e spietata, dall’altro sentivo il bisogno di proteggerla. Ricordo con affetto anche quando ho girato con Bud Spencer: ero ancora molto giovane e per me era un sogno. Mi disse: “Tu vieni dal teatro, vero? Sei una macchina da guerra, facciamo cento, duecento ciak e non sbagli mai.” Quelle parole mi diedero una forza enorme. Vederlo da vicino, lavorare accanto a un uomo così grande, nel corpo e nell’anima , è stata un’esperienza che non dimenticherò mai.
Tu vieni dal teatro, con anni di spettacoli intensi e musical. Come vivi la differenza tra il lavoro sul palco e quello sui set televisivi o cinematografici?
R: Vengo dal teatro, dove ho lavorato durissimo per anni, però devo ammettere che girare una fiction è sicuramente stressante, ma per chi ha esperienza teatrale è quasi una coccola. Il lavoro sul set è più rilassante rispetto agli spettacoli teatrali faticosissimi. Come diceva Eduardo De Filippo: “Pe fa o teatro ce vonn’ tre cose: a salute, a salute e a salute.” Certo, anche sui set ci vuole salute: una volta, mentre giravo a Ostuni la serie Io non mi arrendo con Beppe Fiorello, fui punta da un’ape e avevo un occhio chiuso. Eppure, grazie al trucco, riuscimmo a girare senza problemi. Per chi ha fatto tanto teatro, lavorare sui set è davvero piacevole: sei più “coccolata”, ti truccano, ti vestono, pensano ai pasti. Al teatro, anche se c’è attenzione, il corpo è molto più provato, soprattutto negli spettacoli musicali, dove ho sgobbato davvero tanto. Quando poi i miei spettatori mi vedono in TV, dopo tutto quel lavoro, è una soddisfazione enorme.
Parli spesso di gratitudine. Quanto è importante per te vivere con gratitudine, sia nella vita personale che nel lavoro?
R: Sono profondamente grata alla vita. Tutto ciò che ho vissuto, le vittorie, le sfide, le gioie e anche i dolori, mi hanno formato e mi hanno reso chi sono oggi. Credo che nella vita sia fondamentale apprezzare ciò che abbiamo, invece di soffermarci su ciò che ci manca. Vivere con gratitudine è la vera ricchezza dell’anima. Aiuta anche essere audaci e credere in se stessi per poter raggiungere ogni sogno e obiettivo.
Quando non sei “l’attrice”, chi è Marianna?
R: Quando non sono l’attrice, sono semplicemente Marianna: una persona curiosa, affettuosa e legata alla mia famiglia. Quando non sono sul set, la mia vita ruota attorno a piccole cose che amo: cucinare, prendermi cura del giardino e dei miei alberi di limoni, e naturalmente dei miei due cagnoloni, che sono la mia gioia quotidiana. E poi c’è Francesco, a cui dedico tutta la mia vita. È l’uomo che ho scelto di sposare: un artista che, però, non si è mai comportato come molti immaginano gli artisti. Ci siamo conosciuti in uno spettacolo teatrale, dove dovevo interpretare sua moglie, e mai avrei pensato che la nostra vita reale potesse unirci. Conoscerlo è stata una scoperta: è profondamente legato alla famiglia, ama i gesti semplici come le cene insieme e sa unire la sua arte alla vita quotidiana. Ho scoperto la sua straordinaria umanità negli otto mesi di malattia di mia madre, mi è stato accanto con dedizione e amore. In quel momento ho capito che non era il classico uomo concentrato solo sulla carriera, lui è un uomo con valori solidi. La mia famiglia numerosa è il mio punto fermo, le mie sorelle sono le mie migliori amiche, e insieme ai tanti amici formano la mia rete di affetti: è questo che riempie davvero la mia vita. Per ora non abbiamo figli, ma come ha detto anche alla Balivo, mi godo l’amore di mio marito, che mi riempie l’anima. E poi c’è la mia famiglia: le mie sorelle sono le mie migliori amiche, e ho tanti amici, ma quando cresci in una famiglia numerosa ti rendi conto di avere sempre tanti confidenti, persone su cui contare in ogni momento.»
Tu hai conosciuto Mario Merola?
R: Sì, l’ho conosciuto, ma non ero sua nuora: lo ammiravo da fan. Quando ho incontrato Francesco sette anni fa, Mario Merola non c’era già più. Per me, però, resta intoccabile: un simbolo di Napoli e della sua arte. Mio padre era talmente innamorato di Mario Merola che, quando mi chiese di accompagnarlo al suo funerale, rimasi sorpresa: io lo conoscevo solo da fan, senza alcun legame personale. Mio padre lo amava così tanto da volermi trascinare al funerale, e ricordo che, nonostante non fossimo amici dei Merola, trovammo il modo di andare grazie al mio carissimo amico Adriano Di Domenico, figlio di Enzo Di Domenico, che scrisse i grandi successi di Mario Merola. Mario Merola era un uomo dedito alla famiglia, buono e generoso. Guardando Francesco, vedo le stesse qualità: la stessa voce, le stesse movenze, la stessa bontà. È legato alla famiglia, non conosce cattiveria, perdona e ama profondamente, e questa sua serenità mi avvolge. In una vita di grandi legami e responsabilità, lui mi dà equilibrio e pace.



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Marianna Mercurio
Fotografia di Mia Di Domenico atcampobase;
Stylist Emanuela Ingemito;
Make Up Giada Della Corte