Noi del Rione Sanità

L’attore napoletano racconta il suo percorso artistico e l’esperienza sul set della nuova fiction Noi del Rione Sanità.

A cura di Maria Vittoria Corasaniti.

C’è qualcosa di raro negli occhi di Giampiero De Concilio — quella luce autentica che appartiene solo a chi crede davvero in ciò che fa. È un attore che vive ogni ruolo con verità, che porta in scena la sua anima pulita, sincera, capace di toccare corde profonde. In lui c’è passione, dedizione, e una dolce determinazione che lo rende unico. Ha tanto da donare al pubblico, e il suo cammino, ne sono certa, sarà pieno di bellezza e di emozioni. Giampiero De Concilio è un giovane attore napoletano che, grazie a una solida formazione teatrale e a ruoli importanti sia al cinema che in televisione, ha già conquistato un posto di rilievo nel panorama cinematografico e televisivo italiano. Il suo percorso è ancora in piena evoluzione, e appare destinato a crescere ulteriormente.

Cosa ti ha spinto ad aderire al progetto Noi del Rione Sanità e a entrare a far parte del cast?

R: “Diciamo che la tua è una domanda a cui sarebbe bello rispondere tra vent’anni. A questo punto della mia carriera sono ancora io a dover convincere gli altri, più che il contrario. Ogni provino che arriva è una sfida, un’occasione per mettermi in gioco e dimostrare quanto amo questo mestiere. Finché il progetto è onesto, finché racconta qualcosa di vero, io ci sto, perché ogni ruolo è un pezzo di strada, un passo in più verso quello che sogno di diventare. Noi attori, all’inizio, ci convinciamo quando arriva un’e-mail con scritto hai un provino: lì capisci se vuoi provarci davvero, se hai la voglia di buttarti. E la verità è che, quando sei giovane, devi buttarti sempre, devi dire sì a tutto ciò che ti fa crescere, che ti accende. Poi, magari un domani, arriverà il momento in cui potremo scegliere davvero. Noi del Rione Sanità mi ha emozionato subito, c’erano anche diversi stimoli forti: il progetto in sé, la possibilità di lavorare su Napoli, nel quartiere Sanità, dove sono cresciuto artisticamente, e soprattutto l’occasione di interpretare un personaggio diverso da tutti quelli che avevo interpretato finora. Mimmo è uno di quei “pesciolini di paranza”, uno del branco, una piccola iena, una piccola volpe del bosco. Uno di quei ragazzi con il cuore caldo e la crosta fredda”.

Il tuo personaggio nella serie è “Mimmo”. Qual è la cosa che più ti affascina di Mimmo e, al tempo stesso, quale sfida — o quale aspetto particolarmente difficile o stimolante — hai incontrato nel portarlo sullo schermo?

R: “Più che difficile, direi che è stato stimolante. Parto proprio dall’ultima cosa che mi hai chiesto: ogni personaggio è una sfida, perché bisogna adattarsi ai suoi occhi, al suo modo di guardare il mondo. Questo, per me, è sempre il punto più affascinante del lavoro dell’attore. Il personaggio che interpreto non è affatto “ignorantello”, come si potrebbe pensare a una prima lettura. Sarebbe troppo semplice, troppo bidimensionale vederlo così. Invece, tridimensionalmente parlando, è un ragazzo con un mondo interiore, con ferite, contraddizioni e una sensibilità nascosta dietro la corazza. Ed è proprio lì che nasce la parte più bella del mio lavoro: trovare la verità nelle sfumature. È un personaggio che vede il mondo in modo genuino, così come gli è stato insegnato. Ad un certo punto decide di “mettersi gli occhiali”, di provare a vedere meglio. Vuole sganciarsi da quella sorta di miopia o astigmatismo, come lo vogliamo chiamare, che appartiene al pensiero comune. Si mette gli occhiali da sole per riuscire a guardare oltre quel ponte che fa ombra sul rione. Il talento che più apprezzo in lui è la capacità di essere curioso, di non fermarsi a vedere le cose per come appaiono. È una qualità che sembra innata, ma che in realtà viene da fuori, da un desiderio di scoperta, da una spinta che non tutti hanno”

Nel primo episodio c’è un momento sorprendente in cui il tuo personaggio canta, mostra un lato romantico, spontaneo, istintivo. Ti sei immaginato cosa possa scatenare in lui quel momento?

R: “Io sono convinto di questo: neanche lui immaginava di poter fare una cosa del genere. È come se si chiedesse “ma cosa mi sta succedendo?”. Un po’ come quando il ragno morde Peter Parker la notte e lui, il giorno dopo, si sveglia e scopre di essere diventato Spider-Man. È quella sensazione di trasformazione improvvisa, che ti fa dire: “sono fuori di testa, ma qualcosa dentro di me è cambiato”.

Come hai lavorato sulla costruzione del personaggio di Mimmo? 

R: “Ti dico la verità: in passato mi avevano già fatto una domanda simile, ma in quell’occasione ero stato un po’ vago, stavolta invece voglio essere più preciso. Mi sono davvero messo sul motorino e ho girato per Napoli, guardando le cose con occhi diversi. Ho cercato di riportare la mente a quando avevo quindici o sedici anni, ai miei primi passi al Nuovo Teatro Sanità. Ho rivisto i volti, le voci, le risate di quei ragazzi che, secondo me, potevano essere Mimmo. Perché Mimmo non è solo un personaggio: è un’idea, una possibilità. Può nascere in qualsiasi quartiere, in qualsiasi famiglia.
Io credo che nella vita ci siano due marciapiedi: quello “di casa”, su cui nasci e che spesso ti trascina giù, e quello “di fronte”, quello che attraversi solo se hai il coraggio di cambiare direzione. Crescere significa imparare a spostarsi di qualche passo… ma con tutto il cuore”.

Oggi, è facile che una persona, indipendentemente dall’ambiente o dal ceto sociale in cui nasce, possa comunque lasciarsi attrarre da scelte negative, cosa ne pensi?

R: “Assolutamente sì, veramente, penso che oggi sia così indipendentemente dal contesto sociale. Io mi reputo fortunato perché ho fatto una scelta spinta dalla passione per l’arte. Ho voluto fare l’attore, e questo mi ha dato un obiettivo, una direzione precisa, mi ha guidato, mi ha tenuto lontano da tante tentazioni. Ho molti amici, anche provenienti da famiglie perbene, che comunque si sono persi. Non necessariamente in situazioni estreme, ma anche semplicemente nel lasciare andare la propria vita senza accorgersene, tra lo spreco e il vuoto”.

Il tuo personaggio, Mimmo, rappresenta un “sognatore di periferia”. Cosa significa per te essere un “sognatore” oggi e in un contesto difficile?

R: “Significa tapparsi le orecchie rispetto a tutte le voci ciniche e immobilizzanti della società, che a volte arrivano anche dalla tua stessa famiglia, e puntare dritto verso il proprio obiettivo, anche quando la strada è buia, quando la vista è accecante e davanti c’è solo il vuoto. Farcela con le proprie gambe, sapersi far aiutare, uscire dalla propria zona di comfort e affrontare le parti più scomode del percorso. Sono tutte queste per me le espressioni che accompagnano un sognatore. Il sogno è fatto anche di scomodità, di incertezza, di tremore alle gambe. Ho detto cose dure, ma c’è anche un lato bellissimo: quello di stare esattamente nel posto dove vuoi essere, nel cammino verso ciò che desideri davvero. Per me questo è essere un sognatore. Sembra una cosa banale, ma non lo è affatto. Me ne rendo conto ogni giorno facendo l’attore e continuando ad avere tanti sogni ancora da realizzare. Il mio sogno è proprio questo: fare il mio mestiere nel modo migliore possibile, cercando sempre la qualità, non la scorciatoia”.

C’è un messaggio che speri gli spettatori colgano attraverso la serie e, in particolare, attraverso il tuo ruolo?

R: “Sì, che c’è sempre la possibilità di scegliere, anche quando sembra tutto già scritto. Credo che, spesso, la via migliore sia proprio quella che non vorremmo percorrere, perché tendiamo ad auto sabotarci. Lo facciamo tutti, in un modo o nell’altro, Mimmo lo fa, come ognuno di noi. Ci auto sabotiamo in nome di qualcosa, per rivendicare il nostro passato, per paura del nuovo. Penso che questo sia il vero messaggio che porta Mimmo: affrontare il proprio passato, senza farsi schiacciare dal suo peso. Mimmo non cammina dritto verso la luce, zoppica, inciampa, ma va avanti. Questo, forse, è il punto: imparare a fare i conti con ciò che è stato, non ignorarlo, ma trovare la forza per portarselo dietro, come un sacco pesante sulle spalle e, pian piano, fare i muscoli giusti per sostenerlo. Se c’è un messaggio che Mimmo lascia, per me è questo: accantonare il passato quando fa male, trasformarlo, usarlo come forza. Alla fine sono proprio i traumi, le ferite, le cicatrici, che ci rendono unici ci ricordano da dove veniamo e quanta strada abbiamo fatto per restare in piedi”.

Qual è stato il momento più toccante o che più ti ha segnato durante la lavorazione della fiction, o c’è una scena o un episodio sul set che porterai con te?

R: “Non c’è un solo episodio toccante, ma tanti. Quasi tutti legati al rapporto con il personaggio di mio padre, interpretato da un attore a cui sono molto affezionato: Ivan Castiglione. Con Ivan c’è un legame speciale, umano e artistico. Ci sono diversi momenti che mi hanno colpito, ma già solo il fatto di essere tornati a lavorare insieme, dopo anni, è stato profondamente emozionante. Avevamo già condiviso il palco in teatro, nella Paranza dei bambini, e anche lì lui interpretava mio padre. Ritrovarci ancora in quei ruoli, con altre vite, altre esperienze sulle spalle, è stato come chiudere un cerchio e riaprirne un altro. È toccante poter fare un percorso del genere insieme: non solo costruire il personaggio da soli, ma condividere la ricerca, confrontarsi, approfondire. Per me questo è il senso più vero del lavoro d’attore, quando diventa incontro, scambio, emozione condivisa”.

Se potessi scegliere un motto per il tuo personaggio Mimmo, quale sarebbe?

R: “Se davanti a te c’è un muro vai incontro, spaccalo a testate con la forza dei tuoi sogni, se resiste, scavalcalo, non lasciare che ti fermi”.

Puoi raccontarci come e quando è scattata in te la voglia di diventare attore?

R: “Avevo quattordici anni, ero a Parigi con la mia famiglia per festeggiare il compleanno di mia madre. Di fronte all’albergo in cui alloggiavamo stavano girando un film, Samba, con l’attore francese Omar Sy. Ricordo che la scena era semplicissima: lui era seduto fuori da un ristorante e fumava una sigaretta. Tutto qui. Ma quella scena durò ore — tre, forse quattro. Credo abbiano girato con più di duecento sigarette. A me quella cosa colpì tantissimo. Pensai: ma quanto dev’essere incredibile cercare tutte queste sfumature in un gesto così piccolo? Quanto può essere affascinante e difficile, allo stesso tempo, rendere vivo un momento così normale. Lì, senza nemmeno accorgermene, qualcosa è scattato. Mi sono detto: voglio capire cosa si prova a fare questo mestiere. Poi, ovviamente, l’ho capito davvero solo facendolo. All’inizio ti innamori del fascino, dell’idea, del carisma di questo lavoro. Ma poi arrivano le difficoltà, le batoste, lo studio, la disciplina, e capisci che non è solo un sogno: è un cammino infinito. Forse è proprio questo il bello. Perché più vado avanti, più mi rendo conto che non si smette mai di imparare, di scoprire, di cercare. Oggi posso dire che mi sto innamorando davvero adesso di questo mestiere, ogni giorno un po’ di più. È diventato indispensabile per me”.

Hai fatto teatro, televisione e cinema: quale di queste esperienze ti ha formato di più e quale preferisci, e perché?

R: “Sicuramente il teatro, poichè mette l’attore nella posizione più vera, quella dell’artigiano. Lì non puoi essere salvato dal montaggio, non c’è trucco, non c’è taglio che tenga. Sei tu, completamente. Sei tu il regista, il montatore, l’anima viva di ciò che accade. Ogni sera è un atto di coraggio, perché non puoi rifare, non puoi dire “ho sbagliato, ricominciamo”. Devi andare avanti, trovare dentro di te il ritmo giusto, la verità giusta, e arrivare al pubblico con chiarezza e cuore. Quelle esperienze mi hanno fatto crescere tantissimo, soprattutto la mia prima tournée, con attori come Ivan Castiglione e Vincenzo Antonucci — che tra l’altro è nella serie e interpreta Sante, il personaggio che muore nella prima puntata. Lavorare con loro, condividere il palco, sentire la responsabilità della parola detta in quel momento, davanti a chi ti guarda… è qualcosa che ti cambia. E devo dire che anche sul set, oggi, ritrovo un po’ quella stessa tensione del teatro. Perché anche lì, ormai, non puoi davvero sbagliare: c’è poco tempo, pochi ciak. Devi arrivare dritto al punto, centrare l’emozione, chiudere la tua inquadratura. Il teatro mi ha insegnato proprio questo: ad andare fino in fondo, senza paura, senza appoggiarmi a niente. A credere che ogni battuta, ogni respiro, sia irripetibile.

Hai partecipato a spettacoli teatrali come La paranza dei bambini, “Smiley”, “Patroclo e Achille” etc. Qual è stata la prova teatrale che ricordi con più emozione e perché?

R: “Sicuramente la tournée fa parte di un’emozione molto forte, di quelle che ti restano addosso. Ma se devo dirti uno spettacolo che mi ha davvero segnato, direi Dei figli, diretto da Mario Perrotta, uno spettacolo che porto ancora in giro e che continua a insegnarmi qualcosa ogni volta che lo faccio. Mario è un maestro vero, uno di quelli che ti porta in profondità, che ti accompagna a scoprire punti di te stesso che da solo forse non avresti mai il coraggio di guardare. Lo stesso vale per Luciano Melchionna, con l’esperienza di Dignità autonome di prostituzione. Anche lui è un maestro capace di spingerti oltre i tuoi limiti, di farti vedere le cose da un’altra prospettiva, più viva, più umana. Entrambi, a modo loro, mi hanno insegnato che il teatro non è solo recitare: è attraversare, esplorare, arrivare in luoghi che normalmente non vedresti, dentro di te e negli altri”.

Nel 2018 esordi al cinema con Un giorno all’improvviso, in cui interpreti Antonio. Che ricordi hai di quel set e di quel ruolo?

R: “È stato un viaggio incredibilmente intenso, quasi surreale, un’esperienza che ti travolge dall’inizio alla fine. Ho molti più ricordi legati ai provini, il girato è stato intenso e veloce. Ogni giorno giravo 7-8 scene, cercando di centrare il ciak al secondo o terzo tentativo. Ero completamente spaesato: non avevo mai avuto a che fare con una macchina cinematografica, e tutto era nuovo e sorprendente per me. Ero completamente spaesato, perché non avevo mai lavorato con una macchina cinematografica. Per fortuna ho avuto accanto persone come Ciro D’Emilio, Anna Foietta e il produttore Andrea Calbucci: mi hanno letteralmente preso per mano e accompagnato passo dopo passo. Così anche i momenti più duri, le sfide più grandi si sono trasformate in lezioni preziose, traumi “giusti” che ti fanno crescere e ti cambiano. Porto con me ricordi bellissimi e una gratitudine enorme verso chi mi ha accompagnato. Proprio di recente ho concluso un set con Ciro per Mediaset, e oltre all’esperienza artistica, mi porto a casa legami autentici che resteranno con me per sempre”.

In un’intervista hai parlato di determinazione e di sapere cosa cerchi. Cosa stai cercando ora – come obiettivo artistico o personale?

R: “Quello che sto cercando ora è mettermi in gioco con proposte teatrali sempre più complesse, che mi mettano in difficoltà, perché sono convinto che più ci si sfida, più si trova libertà di espressione. Non sempre accade subito, ma nel momento immediatamente successivo si percepisce. Voglio affrontare qualsiasi progetto, dal daily alla serie web, dal repertorio alla ricerca teatrale, dal cinema commerciale a quello non commerciale, con la stessa qualità, senza pigrizia e senza superficialità. La superficialità, per come sono fatto, mi spaventa, e voglio lavorare con il massimo impegno, cercando di restare sempre autentico e presente.

Qual è stata la scena o il momento sui set che ti ha cambiato, che ti ha insegnato qualcosa di fondamentale?

R: “Più che una scena, quello che porto davvero con me è un piccolo consiglio, un momento che mi ha segnato senza neanche accorgermene. Avevo diciassette o diciannove anni… ero giovane, innamorato, pieno di sogni, ma ancora così inesperto da non sapere davvero cosa stessi facendo. Non ricordo la scena in sé, ma ricordo chiaramente quel truccatore che si avvicinò. Con innocenza, gli dissi: “Sono stanco.” Oggi, se sentissi qualcuno dire una cosa del genere sul set, non riuscirei a crederci: stare lì è un privilegio, un sogno che si realizza, qualcosa di sacro. Lui mi guardò con pazienza e un po’ di incredulità, e mi fece capire, senza alzare la voce: “Ma sei pazzo? La parte è tua… e tu sei stanco?” Quelle parole, così semplici e dirette, mi rimasero dentro. Non era una scena memorabile, non un momento da copione, ma quel piccolo gesto di incoraggiamento è qualcosa che custodisco ancora oggi, come una luce che guida il mio percorso”

Come lavori internamente sul personaggio: preparazione fisica, studio, rilassamento, improvvisazione… puoi descrivere il tuo “rituale”?

R: “Dipende molto dal personaggio. A volte mi aiuta già immaginarmi una camminata, un gesto, un modo di muoversi… non tutti i personaggi nascono nello stesso modo. Ci sono volte in cui parto dalla voce: come per esempio, è successo nell’ultimo film che ho girato su Pino Daniele, “Je so pazzo”. Altre volte invece parto dal corpo: osservo come cammina il personaggio, e la voce nasce di conseguenza. Non lavoro molto sul lato psicologico, inteso come introspezione profonda, perché mi chiude; preferisco chiedermi “perché fa questo?”, osservando come il personaggio interagisce con se stesso, come reagisce alla sorpresa. La sorpresa è fondamentale: quando un personaggio si sorprende, lì nasce la prima domanda, la chiave per tutto il resto. Poi mi lascio guidare dall’ascolto degli altri. Capire chi è un personaggio da solo è complicato, mentre comprenderlo nelle relazioni, nella rete di rapporti che costruisce con gli altri, è molto più semplice. Studio come si colloca nel contesto del film o dello spettacolo, perché è essenziale anche il tono con cui comunichiamo con lo spettatore. Insomma, creo una sorta di rete tra corpo, voce, relazioni e contesto. A volte, per cambiare il corpo, provo cose nuove: uno sport diverso, un movimento nuovo. Ho fatto pilates, sono stato pugile per tre anni e mezzo, e adesso ho iniziato a ballare. Cercare nuovi contatti col corpo mi permette di scoprire sfumature del personaggio che altrimenti resterebbero nascoste”.

Hai interpretato ruoli che toccano temi delicati (famiglia, identità, adolescenza) — ad esempio in “Un giorno all’improvviso” il rapporto madre-figlio in una periferia campana. Come affronti il tema della responsabilità di raccontare realtà così forti?

R: “Lo faccio sempre con responsabilità, ma devo essere onesto: quando ho lavorato a Un giorno all’improvviso, l’ho fatto soprattutto per me. Vivo la vita un po’ come una scala: ogni esperienza è uno scalino che mi porta a diventare più bravo, a capire meglio come fare le cose. Non sento la responsabilità verso chi guarderà il mio lavoro come un peso, almeno non ancora. Certo, quando mi viene affidato un progetto, so di doverlo rispettare, di non tradire chi mi ha dato fiducia. Ma sento anche il diritto, e forse il dovere, di interpretarlo secondo la mia sensibilità, secondo come lo sento dentro. Non posso piacere a tutti, e va bene così. Mi è capitato in teatro di fare scelte che qualcuno ha trovato strane o persino irrispettose. Ma quando si parla d’arte, certe frasi non hanno senso. Se iniziassi a sentire la responsabilità come una catena, la mia libertà artistica morirebbe sotto terra. E io non voglio che questo accada. Per fortuna ci sono i registi. Persone come Ciro d’Emilio, sul set di Un giorno all’improvviso, che mi hanno sempre messo dei limiti gentili: “Giampiero, fermati qui, questa cosa no.” Io sono naturalmente eccentrico, amo spingere oltre, esagerare. Ma è necessario avere qualcuno che ti fermi, che ti dica: “Va bene così, calmati.” Senza queste briglie, il rischio è perdere il filo, ma con loro riesco a esprimermi pienamente, libero e responsabile allo stesso tempo”.

Qual è il messaggio o l’impronta che vuoi lasciare grazie al tuo lavoro?

R: “Quello che desidero davvero è che quello che faccio arrivi alle persone. Non importa se non è perfetto, se non è preciso, o se qualcuno lo interpreta in modo diverso da come l’ho pensato: se arriva, se tocca un cuore, per me va bene così. A me basta che qualcosa, anche piccolo, accenda un’emozione. Certo, sogno che chi guarda possa ricevere un messaggio positivo, qualcosa che li faccia sorridere, pensare, sognare. Non faccio il prete, non insegno, non predico. Faccio l’attore: apro una porta, offro un frammento di vita, e lascio che chi guarda lo accolga e lo faccia vivere dentro di sé, come vuole. È un gesto semplice, ma per me è tutto”:

Quali sono i progetti prossimi su cui stai lavorando o che vorresti affrontare?

R: “Presto tornerò in teatro con il Teatro Bellini per Dignità Autonome di Prostituzione uno spettacolo teatrale di Luciano Melchionna, uno spettacolo che a Napoli ha sempre avuto un enorme successo. Gli attori diventano “prostitute di monologhi” e lo spettacolo si trasforma letteralmente in un bordello dell’arte: è un grande evento culturale per la città. Poi andrò al Teatro Parenti di Milano a recitare in Dei Figli di Mario Perrotta, e più avanti sarò in scena al Mercadante di Napoli. Ho anche un progetto televisivo in cantiere, e, naturalmente, continuerò a dedicarmi tanto al teatro”.

C’è un ruolo che hai sempre sognato di interpretare, qualcosa che ti ha sempre fatto battere il cuore? Forse un grande classico, o un progetto con un regista con cui desideri profondamente lavorare?

R: “il mio sogno sarebbe lavorare con Valerio Binasco. Affrontare Amleto al suo fianco sarebbe un’esperienza incredibile, qualcosa capace di farmi crescere profondamente, non solo come attore, ma anche come persona. Sento che sarebbe un viaggio intenso, un’occasione unica per imparare e mettermi davvero alla prova”.

Come bilanci la vita pubblica (set, eventi, interviste) e la vita privata?

R: “In realtà, la mia vita privata e quella pubblica sono già bilanciate da sole, perché non le mescolo. A volte capita che porti un amico a un evento o la mia fidanzata, ma di solito do un taglio netto tra le due dimensioni. Non voglio che si mischino: mi spaventa l’idea di creare una strana “fanghiglia” in cui nella vita privata si parla solo di lavoro e nella vita pubblica solo di vita privata. Noi attori abbiamo già il cervello pieno di battute da imparare, di personaggi da rendere credibili, e continui dubbi su tutto. Per questo preferisco tracciare una linea netta: questa è la mia vita privata, quest’altra è la mia vita pubblica. Così riesco a proteggere entrambe e a vivere tutto con più leggerezza”

Un talento nascosto che nessuno conosce di te?

Sono un buon sportivo, anzi, direi un ottimo sportivo. Amo profondamente lo sport, fa parte di me. Ti ho detto, per tre anni e mezzo mi sono allenato con costanza, con disciplina, e ho anche fatto incontri ufficiali come pugile. È un mondo che mi ha insegnato tanto: il rispetto, la fatica, la concentrazione. Tutte cose che poi porto anche nel mio lavoro, sul palco o sul set”.

Se potessi cenare con tre persone, vive o scomparse, chi inviteresti e perché?

R: “Se potessi scegliere tre persone con cui cenare… beh, la prima sarebbe Marcello Mastroianni. Vorrei guardarlo negli occhi e chiedergli come faceva a rendere tutto così semplice e intenso allo stesso tempo. Ogni parola, ogni battuta, usciva da lui come se fosse inevitabile, naturale, eppure piena di grazia. Mi piacerebbe capire dove nasceva quella leggerezza profonda. Poi inviterei Gesù, per chiedergli come si fa a donarsi completamente agli altri, a portare sulle spalle il dolore del mondo senza sentirlo come un peso, senza rancore. E poi… sceglierei un “cattivo”. Uno vero. Magari Hitler, o chiunque rappresenti il male nella sua forma più pura. Non per parlarci, ma per guardarlo, affrontarlo, e forse, anche solo per un attimo, restituirgli tutto il dolore che ha seminato. Sarebbe una cena strana, lo so. Ma piena di verità: l’arte, la luce, e l’ombra. Tutti seduti allo stesso tavolo”.

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