Nicoletta romalli premio città di castello

A TU PER TU CON NICOLETTA ROMANELLI – PRIMA CLASSIFICATA AL PREMIO CITTA’ DI CASTELLO CON IL LIBRO ” LE MIE SORELLE ERANO INNAMORATE DI ANDREA GIORDANA ( E IO NO)

Il primo romanzo di Nicoletta Romanelli con il quale si è classificata al primo posto per la Selezione narrativa al Premio

Letterario “Città di Castello” edizione 2014.

1) Da dove prende spunto per le sua trame?

La frase di Joseph Conrad: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo alla finestra sto lavorando?” nel mio caso è azzeccatissima. L’osservazione della realtà è un immenso serbatoio di idee, spunti, trame.

Il detto “la realtà supera la fantasia” è il mio mantra: esistono personaggi, dialoghi, atteggiamenti che possiamo incontrare nella vita quotidiana che, osservati attentamente e opportunamente descritti, sono veri e propri gioielli narrativi.

2) Quando scrive ha già in testa tutta la trama?

Sa già come si dipanerà la storia?

Ne conosce il finale?

Le storie iniziali sono solo un piccolo ingranaggio, uno scheletro, un’ossatura.

La polpa arriva dopo. Nella scrittura parto da un’idea, da un vissuto, da una traccia che potrebbe apparire minima, addirittura banale.

Il bello, poi, è come la si racconta, in quali mille rivoli ci si può perdere, quali e quanti personaggi collaterali si possono incontrare nel corso della narrazione, quali e quante descrizioni di paesi, luoghi, esseri umani, animali, piante possono arricchire l’ingranaggio iniziale.

In questa prospettiva anche il finale, seppur predestinato e già deciso in partenza, può anche cambiare direzione in corso d’opera, se la strada che si è imboccata “porta” necessariamente in quel punto.

3) Ama mettere molti riferimenti al reale nelle sue storie?

4) Quanto sono autobiografici i suoi libri?

Temo sempre il momento in cui, dopo aver letto qualcosa di mio, amici, parenti e soprattutto mia madre, giudice implacabile, infallibile e attento a che ogni virgola sia al posto giusto, mi chiedono: “Sei tu la protagonista del libro che hai scritto?”.

Scrivere è un affare di autobiografie, non se ne esce.

Anche quando la trama parla di altri, anche quando la storia è ambientata a Buenos Aires anziché a Milano, anche quando a dar voce alle vostre parole è un monaco tibetano o un serial killer a piede libero, dietro ci siete voi, solo voi, inesorabilmente voi.

Quando i libri arrivano ai lettori la vostra storia diventerà la loro storia, storia che mostrerà le vostre glorie e le vostre debolezze.

Ed è questo il bello della scrittura.

I romanzi sono pieni di oggetti, strade, colori, paesaggi, frasi, persone, che fanno parte della vostra vita, che avete incontrato anche solo per un attimo, di sguardi che avete incrociato.

Sono pieni di cose che abbiamo visto e che avremmo voluto vedere, di vite che abbiamo vissuto e che avremmo voluto vivere, di profumi che sono solo nostri e di abiti che sono appartenuti a qualcun altro.

Scrivere romanzi non è solo raccontare se stessi, ma vedere gli altri e farli entrare nella nostra narrazione, invitarli a far parte del nostro racconto.

La scrittura è una somma di vite vissute e non vissute, ma chi scrive fa sempre capolino nella narrazione e rivendica la propria esistenza in ogni punto, in ogni pagina, in ogni vicenda narrata.

Per questa ragione posso dire che nelle mie storie i riferimenti al reale sono moltissimi, anche sotto forma di semplici spunti, colori, capi di abbigliamento, spezzoni di conversazioni rubate nella sala d’aspetto del dentista o al supermercato.

Posso aggiungere che mi affascina molto il lato comico, grottesco, delle persone, ed è questa una costante dei miei racconti e romanzi.

Trovo che le persone, spesso inconsapevolmente, racchiudano tutta una serie di elementi comici nel modo di muoversi, nell’abbigliamento, nella voce, nel modo di rapportarsi, che li rende impareggiabili, veri e propri attori di se stessi.

E, per me, una fonte inesauribile di spunti.

Anche il mio romanzo, “Le mie sorelle erano innamorate di Andrea Giordana (e io no) – Una guida alla felicità”, con il quale mi sono classificata al primo posto per la sezione narrativa al premio letterario Città di Castello, è un caravanserraglio di personaggi tragicomici che danno vita a situazioni a dir poco spassose.

Questo, a detta di chi ha già letto il romanzo, naturalmente.

5) Quante ore al giorno scrive? Dove si mette? Quali cose aumentano la sua concentrazione e quali invece la distraggono?

Ore al giorno non saprei dire…o meglio, sono un lusso che non mi posso permettere.

La mia vita lavorativa è molto fitta e impegnativa, ripartita equamente tra musica e calligrafia,

i miei due campi d’azione.

Le ore quotidiane a disposizione per la scrittura si riducono a sprazzi, minuti, momenti “strappati” a tutto il resto. Altra cosa sono i fine settimana, le vacanze: in quel caso mi scateno e recupero il tempo perduto.

Quando comincio, poi, non mi ferma nessuno!

Non appartengo alla categoria degli scrittori che non vogliono essere disturbati. Quegli scrittori che spengono il cellulare o il tablet e danno fuori di matto se la moglie li chiama per la cena, il figlio piange, il cane abbaia, il pesce rosso boccheggia in modo troppo vistoso.

Scrivo su una spiaggia, fra bande di gitanti alle prese con una partita di beach-volley, sulla metropolitana all’ora di punta ( e vi garantisco che le metropolitane milanesi sono quanto di meno “ispiratorio” e tranquillo possa esistere su questa terra), se non addirittura in auto quando sono in coda sulle tangenziali.

Ma quest’ultima “location” forse non dovrei dirla, perché si rischia il ritiro della patente.

E questo non significa essere più bravi. Forse, esattamente il contrario.

Significa solamente aver imparato, per forza di cose, a doversi ritagliare uno spazio/tempo adeguato all’interno di una giornata fatta di molti, troppi impegni.

Tutto questo finché non si diventa degli scrittori a tempo pieno, dei professionisti della scrittura.

Allora, penso, in quel caso il tempo diventa tutta un’altra cosa.

6) Parla di ciò che sta scrivendo con i suoi familiari?

Generalmente divido le persone che mi circondano, alle quali potrei sottoporre un mio romanzo alla lettura, in due categorie: chi capisce qualcosa di scrittura e chi non ne capisce.

Chi non ci capisce nulla, di solito molti fra i parenti, la vicina di casa, l’amico del piano di sopra, ti dicono che è una meraviglia, che tu e Dostoevskij siete due separati alla nascita, che è la cosa più bella che sia mai capitata loro tra le mani, e via delirando.

Questo, presumo, anche se gli presentassi la lista della spesa.

Quindi, in questo caso, lascio perdere.

Chi ci capisce, solitamente, non ti risparmia piccole e grosse critiche alla trama, alla punteggiatura, allo smodato uso di avverbi, al limitato uso di aggettivi, alla carenza di “respiro” (ma cosa significhi, esattamente, non l’ho ancora capito), all’assenza di “plot” (adesso va di moda, il plot. Non chiedetemi però cos’è. Io scrivo racconti, romanzi, trame. Plot mai, lo giuro!)

Quindi, anche in questo caso, lascio perdere. Perché lo spettro della depressione dello scrittore, quello che ti fa mollare tutto ancor prima d’iniziare, è troppo pericoloso.

Quindi, in generale, evito.

Preferisco affidarmi a giudizi di persone qualificate del settore, ma totalmente esterne ed estranee alla mia vita, come i membri della giuria di un concorso letterario, che di me ne sanno quanto il casellante della Milano – Genova: nulla. E che mi giudicano solo per quello che leggono.

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