FEDERICO FABBRI HA PRESENTATO IL SUO LIBRO “Maledette ortensie” A PRATO – OPIFICIO J.M.
D – Da dove prende spunto per le trame dei suoi libri?
R – Solitamente è un’emozione che mi fornisce lo spunto per iniziare una storia. Penso a come mi sentirei se accadesse una determinata cosa e a come mi comporterei se mi trovassi in una particolare situazione. A volte può essere uno spunto banale a dare il via ad una riflessione che poi si porta dietro mille emozioni. Come nel caso di Maledette ortensie che è nato quasi per caso osservando in una giornata di pioggia un giardino pieno di quei grandi fiori: ricordo perfettamente la sensazione di malinconia che ha accompagnato quella visione e il parallelismo che immediatamente mi ha portato a creare il personaggio del protagonista di questa storia, malinconico come quelle ortensie rosa. Il resto, poi, è venuto da sé.
D – Quando scrive ha già in testa tutta la trama? Sa già come si dipanerà la storia, ne conosce già il finale?
R – Devo dire che lascio molto spazio all’improvvisazione, facendomi guidare più dalle sensazioni che non da un tracciato ben delineato. Mi piace scrivere storie intime, introspettive, dove le emozioni dei personaggi diventano protagoniste della narrazione: sono queste che costituiscono la struttura del libro, lo scheletro che sorregge il racconto. Nel caso di Maledette ortensie ho cercato in ogni modo di calarmi nei panni del personaggio lasciandomi guidare dall’istinto senza sapere esattamente dove questo mi avrebbe portato. L’evoluzione della storia ha seguito il mio stato d’animo e il finale che inaspettatamente ne è venuto fuori, ha sorpreso pure me, che all’inizio non sapevo come avrei concluso il romanzo; in realtà mi sto rendendo conto che ogni lettore dà una sua personale interpretazione dell’ultimo capitolo del libro, spesso assai diversa da quella che io ho immaginato scrivendolo ed è una cosa che mi lascia piacevolmente stupito, perché non pensavo che questo potesse accadere.
D – Ama mettere molti riferimenti al reale nelle sue storie?
R – Le mie storie affrontano tematiche comuni con cui ognuno di noi, per esperienza più o meno diretta, si è dovuto confrontare. Ma, come ho detto prima, quello che a me interessa è entrare nell’intimo dei personaggi per capire come la realtà che immagino incida sui loro comportamenti e sulle loro emozioni. Il reale, nel mio caso, è anche il pretesto per scoprire, attraverso i protagonisti della storia, qualcosa di più su me stesso.
D – Quanto sono autobiografici i suoi libri?
R – Direi poco, anche se alcuni lettori hanno pensato che Maledette ortensie fosse un romanzo autobiografico, forse per alcune immagini che coincidono con tratti della mia vita reale. Ma si tratta solo di piccoli riferimenti che mi hanno permesso di entrare più in sintonia con la storia, visto che per raccontare l’esperienza di un abbandono e le emozioni che tale evento può provocare, era necessario immaginare che una cosa del genere fosse accaduta davvero nella mia vita. Fortunatamente, la mia realtà è molto distante da quella del libro, tranne forse per la viscerale antipatia per le ortensie, che condivido con Marco, il protagonista del romanzo.
D – Quante ore al giorno scrive? Dove si mette? Quali cose aumentano la sua concentrazione e quali invece la distraggono?
R – Non ho tempi programmati per scrivere, anche se i giorni del fine settimana sono quelli in cui riesco a ritagliarmi un po’ di spazio in più da dedicare alla mia passione. In un angolo della sala da pranzo ho attrezzato una scrivania con computer e stampante: è quello il mio rifugio quando voglio scrivere. Preferisco farlo al mattino presto o nel primo pomeriggio, quando in casa c’è più tranquillità: accendo, anche in pieno giorno, la piccola lampada da tavolo gialla che mi ha accompagnato in tutti i traslochi fin qui fatti, infilo gli auricolari e faccio girare a ripetizione sempre la solita playlist, composta da una ventina di brani selezionati che mi aiutano a isolare i rumori di fondo tipici di un condominio di città e, al tempo stesso, a lasciare liberi i pensieri. In questo modo riesco a scrivere anche per diverse ore di seguito, o almeno fino a quando l’ispirazione non mi abbandona.
D – Parla di ciò che sta scrivendo con i suoi familiari?
R – Per Maledette ortensie non è accaduto: ho fatto leggere a mia moglie e mia figlia il libro solo dopo averlo completato. Diversamente, per il nuovo romanzo a cui sto lavorando, ho voluto condividere sia i confini della storia che anche alcune idee su come sviluppare i personaggi, anche perché sono state loro, le donne della mia vita, non troppo soddisfatte del finale di Maledette ortensie, a convincermi della necessità di far sì che i molti interrogativi lasciati aperti nel libro trovassero una spiegazione.
D – Scrive volentieri in solitudine?
R – Sì, assolutamente. Io scrivo prima di tutto per me stesso: è un modo per essere sincero fino in fondo, senza alcun filtro e senza reticenze. Un modo per guardarsi allo specchio e scoprire cose di sé altrimenti invisibili: ogni invasione di questo spazio intimo è un’occasione di distrazione che allontana dall’obiettivo. Sono convinto che la solitudine sia un ingrediente fondamentale per affrontare questo percorso.
D – Ha dei consigli da dare a chi inizia a scrivere?
R – No, non mi sento di dare consigli, non ho l’esperienza per farlo; casomai vorrei riceverne io di nuovi. Il primo che ho ricevuto è stato quello di un addetto ai lavori che, senza neppure aver aperto il mio libro, ha detto che in giro ci sono troppi scrittori e troppo pochi lettori: l’ho preso per un incoraggiamento ad andare avanti, pur consapevole che, nella realtà, era una invito a lasciar perdere. A chi inizia a scrivere, quindi, do solo un suggerimento: non arrendetevi e date vita alle vostre storie, perché non c’è emozione più grande del poter condividere con i lettori quelle pagine che raccontano di voi, del vostro cuore, delle vostre emozioni. Per me è stato così e mi auguro possa esserlo anche per chi, come me, ci crede fino in fondo.
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