I cerotti di Hermès sono l’ennesima dimostrazione di quanto il lusso contemporaneo ami giocare sul confine sottile tra provocazione concettuale e puro esercizio di marketing.
L’idea: tre “Band-Aid accessory” in pelle d’agnello, non sterili, non medicali, non pensati per curare nulla, se non il bisogno di ostentazione, venduti a oltre 140–200 euro a set, a seconda del mercato. Un oggetto dichiaratamente inutile sul piano funzionale, che replica la forma del cerotto da supermercato per trasformarlo in micro‑feticcio di status, griffato e rigorosamente Made in France.

La narrazione ufficiale parla di upcycling creativo nella linea Petit h, recupero dei ritagli di pelle e trasformazione in accessorio decorativo: un’operazione di sostenibilità estetica che, però, stride con il messaggio sociale implicito. In un’epoca in cui si discute di sanità pubblica, disuguaglianze e accesso ai beni essenziali, l’idea di un “cerotto di lusso” che non può coprire nemmeno una ferita reale suona come una caricatura involontaria del privilegio. Il cerotto, simbolo universale di cura e protezione, viene svuotato del suo significato originario per diventare puro segno di distinzione: non ti fascia, ti etichetta.
La reazione dei social è indicativa: tra meme, indignazione e ironia, molti utenti hanno letto in questo prodotto il cortocircuito perfetto del capitalismo fashion – la capacità di monetizzare qualunque cosa, purché ci sia un logo sopra. Non è solo una questione di prezzo esorbitante: è il concetto di “ferita di classe” che si apre, quando un oggetto nato per lenire il dolore viene trasformato in status symbol per chi può permettersi di pagare per un accessorio che non serve. In questo senso, i cerotti di Hermès non sono solo un vezzo: sono lo specchio, lucido e spietato, di un lusso che flirta sempre più con l’autoparodia, rischiando di perdere il contatto con la realtà che esiste fuori dalle sue scatole arancioni.
